Buongiorno,
Dopo molti mesi mi sono messo d’impegno e le ho
scritto, leggo spesso i suoi articoli, mi piace leggerli, e come me chissà
quanti fruiscono delle sue nozioni ingegneristiche e dei suoi racconti
personali.
Sono un diversamente giovane del 75, tre lustri
fa circa più iva, causa baratto, mi sono trovato ad andar per mare, io mai
salito su un imbarcazione, sono di Bergamo! Polenta, salame e montagna.
Da allora ho cercato di imparare qualcosa,
legato alla vela, fortunatamente 10 anni fa l’amico barattante ( non so se si
dice così) ha costruito con un cantiere nautico un cutter in alluminio.
Questo mi ha permesso di lavorare su una barca
soprattutto sull’elettronica e sull’armo, non solo per fare le ferie in Grecia
con aperitivi rinforzati esclusivamente dopo aver dato fonda.
Ogni inizio stagione una decina di giorni li
dedico ad aiutare questo amico a sistemare per la stagione la barca, della
barca adoro la fase secca e la fase bagnata. Ps. Soffro un po il mal di mare ma
è sopportabile.
L’anno scorso dopo 2 anni di preparativi ci
siamo affacciati alle colonne d’Ercole e abbiamo puntato l’Atlantico verso
Martinica, ed è vero quello che diceva il mio istruttore al corso della patente
oltre, la barca è il mezzo più lento e scomodo del mondo, ma se hai abbastanza
panini e birre fai il giro del mondo!
Purtroppo non possiedo un mio mezzo ma un giorno
si sa mai.
Le lascio qualche foto del mondo di la, scriva
sempre per lei e per noi.
Un saluto
Andrea Astori
Che posso dirle?
Grazie, Andrea.
Una risposta molto semplice per una lettera altrettanto
semplice, ma piena di entusiasmo e di miglia che contiene inoltre una frase di
grande verità sulla quale ho meditato anche io più volte: non importa la barca,
l’ equipaggio, l’ attrezzatura, l’ età….quel che è necessario è il tempo....
Vengo all' argomento di oggi.
FOTO DI ANDREA ASTORI
Il mese scorso avevo introdotto nelle varie frasi la
seguente: “…Così come credo ai dati, ma sapendo come vengono presi, da chi, con
quale accuratezza, con quale margine di errore e da chi poi
vengono trasmessi ed elaborati. Sennò
non contano nulla...”
Non so se ve ne
siete accorti ma la decisione di “zona rossa” è stata presa in base a una serie
di dati relativi ad una certa regione, tra cui un particolare peso aveva l’
indice Rt.
Poi, per la verità,
abbiamo assistito anche alla definizione di “mini zone rosse” che nulla avevano
a che fare con tali dati, ma solo col fatto che le terapie intensive degli
ospedali locali erano intasate.
Giusto.
Ma, per favore,
lasciatemi tornare un momento all’ Rt… Misurerebbe quante persone sane possono
essere contagiate da una malata.
Bello, ma come si
fa a misurare?
Credo si potrebbe farlo
solo conoscendo quante ce ne sono di sane e quante di malate nello stesso
momento e nello stesso posto (che già è impossibile) e poi aspettando una
quindicina di giorni e rifacendo la misura su quelle stesse persone e quindi rifacendo
il calcolo.
Impossibile!
Aggiungendo poi che
anche i portatori sani possono contagiare (e che nessuno sa quanti siano)
qualcuno tra voi mi sa dire come si fa a misurare l’ indice Rt?
Io non ci riuscirei
nemmeno all’ interno della mia famiglia, figuriamoci al mercato o in una intera
regione…
Il seguente link mi potrebbe togliere la curiosità ma, come tutti gli studi statistici, si basa sulla più o meno accurata raccolta dei dati.
https://www.epidata.it/Italia/Rt_semplice.htmlE sul fatto di raccogliere i dati vi garantisco questo: che se volete misurare la lunghezza della vostra barca e con lo stesso
metro la misuraste voi, vostro figlio e vostra moglie, vi troverete alla fine
con tre misure diverse.
Provare per
credere.
Al che uno dice:
“Eh, il solito ingegnere che cerca la precisione!”
Già, la precisione
non esiste (argomento che ho già trattato qualche anno fa a proposito di una
storiella universitaria….), ma se da quell’indice deriva il bloccare o meno la
circolazione delle persone e l’ economia di una regione capite bene che un po’
di precisione diventa essenziale.
Quindi l’ attenzione
sempre più puntigliosa sull’ analisi dei fenomeni naturali
(e non) che ci
colpiscono credo sia una cosa importante, così come sia
essenziale raccogliere dati (procedimento assai messo in pratica dalla
cultura anglosassone, ma miseramente trascurato da quella latina) e poi
confrontarli tra loro.
L' argomento di oggi che ha la pretesa di essere nauticamente utile è proprio frutto di una attenzione che dovrebbe essere quasi puntigliosa e che invece spesso non lo è: è la cultura dei rumori.
Il titolo forse è
un po’ pretenzioso, ma va anticipato che in effetti anche i rumori possono
essere fonte di cultura, limitata forse, ma pur sempre cultura perché si tratta
pur sempre di “sapere”.
Ricordo qualche
mese fa di aver scritto qualcosa sull’ olfatto a proposito dell’ esame di una
barca scopo acquisto.
Ho cercato di illustrare quante indicazioni possano dare
gli odori sullo stato di conservazione di una barca usata.
Oggi l’
intendimento è quello di saper ascoltare i rumori per poter condurre al meglio
una barca, quindi anche oggi ti inviterò, caro lettore, a chiudere gli occhi
eliminando temporaneamente il senso della vista per far sì che le tue orecchie
si concentrino al meglio all’ ascolto.
E’ un fatto che
ogni barca reagisce in modo diverso alle numerose e diverse sollecitazioni alle
quali è soggetta, sia quando naviga che quando se ne sta ormeggiata.
Ogni barca, quindi,
ha un suo “modo di lamentarsi” e lo fa attraverso rumori diversi.
Persino due barche
costruite in serie possono lamentarsi in modo diverso, per esempio se vengono ormeggiate
con cime di diametro diverso, o legate su pali flessibili o su bitte rigide.
IN NAVIGAZIONE.
Non si finisce mai
di conoscere i rumori della propria moglie (così come lei non finisce mai di
conoscere i nostri); tale e quale è la situazione con la nostra barca: anzi, è
proprio la “novità” di un rumore che non avevamo mai sentito prima che ci deve
mettere in sospetto.
In genere tutto si
risolve in una anta di uno stipetto che sbatte sulle oscillazione del moto
ondoso, oppure in una pallina o in un giocattolo che se ne va a zonzo per il
pagliolato (sto parlando della barca, non della moglie).
Ma “deve” essere
scoperto con attenzione e non trascurato fino a che non se ne individua la
causa.
Nella navigazione a
vela la vibrazione di una balumina lasca ci può far capire che il meolo è da
tendere oppure che si è rotto.
Oppure è successo
che la tasca di una stecca della randa si è scucita ma, finché guardiamo l’
orizzonte, non ce ne accorgiamo di certo.
Nella navigazione a
motore il rumore dello scarico deve essere accompagnato da quello degli spruzzi
dell’ acqua di raffreddamento che se ne escono insieme ai gas; l’ orecchio da
solo può fornire indicazioni molto più valide che non il termometro (che
forzatamente agisce molto più in ritardo).
Lo stesso regime di
rotazione del motore quando trova un po’ di onda contraria ci fa “sentire”
quanto di più sta faticando: può aver bisogno di un po’ più di gas (e quindi di
potenza) o, viceversa, di rallentare un po’ la velocità così che lo scafo
faccia meno “picchiate” nelle onde.
Non dimentichiamo
che ciò che chiamiamo “comfort” riferito alle nostre persone, è esattamente ciò
che chiedono tutte le parti strutturali della barca quando sono impegnate
seriamente.
E’ vero che uno
scafo è fatto per navigare, ma lo fa facendo fatica: ogni onda gli scarica
addosso un bel po’ di energia e lui (inteso come insieme di materiali collegati
tra loro) deve assorbirla e dissiparla ogni momento sotto forma di attriti e
calore….
Insomma è come se
avesse la febbre.
ALL’ ORMEGGIO.
“Beh, uno dirà,
all’ ormeggio la barca riposa, quindi non avrà la febbre”.
Ahimè le cose non
stanno propriamente così: dipende da che tipo di ormeggio si tratta e da quali
condizioni meteo sono presenti.
All’ ancora.
La linea di
ancoraggio gode sempre di molta elasticità, quindi gli sforzi relativi alle
raffiche di vento vengono sistematicamente ammorbiditi dalla catena e dalla
cima.
Ciò non toglie che
gli strattoni arrivino al verricello e/o alle bitte: in genere ciò si fa udire
attraverso una serie di gemiti brevi, a frequenza via via decrescente (ma di
intensità via via maggiore) man mano che la linea di ancoraggio si tende, fino
all’ esaurirsi della raffica.
Questa frequenza
decrescete è proprio dovuta all’ elasticità di cui sopra: l’ultimo gemito (il
più forte) è quello che si spera i bulloni della bitta riescano a sopportare.
Per quanti cicli in
una notte con vento quei bulloni dovranno scaricare l’ energia sullo scafo?
Se avessimo un
rafficone ogni 40 s, in 8 ore avremmo 8 x 3600 / 40 = 720 cicli.
Se ogni 30 s
avremmo 960 cicli.
Anche in condizioni
di bel tempo, intendo cioè di calma notturna, esiste la possibilità di un
rumore particolare: si tratta del “To-Tlok” che fa la catena dell’ ancora sul
musone di prua allorquando la brezza (stante la quale avevamo dato fondo la
sera) gira e con essa gira tutta la barca, linea di ancoraggio compresa.
E’ un rumore particolare,
non grave, ma che secondo me richiede di abbandonare la cuccetta e salire in
coperta a dare una occhiata: con la nostra barca avranno ruotato anche le altre
e la barca Slovena che la sera era a
dritta più indietro ora può essere a sinistra più avanti…così si saranno
spostati (rispetto a noi) il boschetto e il campanile del paese.
L’ importante è che
le barche siano ancora una volta distanti tra loro, così come lo siano gli scogli.
Al gavitello.
In questo caso la
situazione è peggiore, nel senso che la linea di ancoraggio è brevissima e
molto più rigida; tuttavia è sdoppiata, cioè in coperta arrivano due cime (o
meglio la stessa cima ma a doppino).
Lo sforzo è
maggiore e richiede meno tempo per essere assorbito, ma è dimezzato a meno che
non si sia dato volta il doppino a un sola bitta (che non è una furbata).
In genere poiché lo
scafo è costretto a “giacere” su di un’ area molto più ridotta di dimensioni
rispetto alla situazione all’ ancora (dove può oscillare e derivare, vedi
articolo Dicembre 2007), le sovrastrutture come albero e drizze vibrano di più
e accompagnano i gemiti dei bulloni delle bitte con un concerto di sottofondo
che varia le frequenze in funzione della velocità istantanea del vento.
Alcuni alberi vanno
in risonanza e producono delle vere e proprie note musicali, non proprio
piacevoli anche pe le barche vicine.
In banchina.
Per i bulloni è la
situazione peggiore, che può essere mitigata solo dal fatto che ci si trovi in
acque ridossate.
La banchina è
rigida; le cime di ormeggio si tendono quasi istantaneamente; gli strattoni
sono forti e quasi immediati; non solo i bulloni sono fortemente sollecitati,
ma anche le loro sedi (vetroresina, piastre di alluminio, legno?).
Il tutto spesso fa
accaponare la pelle: ogni strattone sono tonnellate che tirano e gli
scricchiolii delle bitte e delle loro sedi ci stanno dicendo: “Allentami l’
ormeggio di qua, non senti quanta fatica sto facendo?”.
Oppure: “Caspita,
alzati scemo e aiutami con un doppino dato volta ad un winch, no?” (*)
Talvolta la
situazione può essere resa ancor peggiore dalla risacca che, a seconda della
posizione del posto barca rispetto alla geometria della darsena,
può far provenire il movimento dell’ acqua da una direzione diversa da quella
del vento.
In tal modo tutto
lo scafo e quindi i suoi ormeggi vengono alternativamente sollecitati per
impedire alla barca non solo di indietreggiare e risalire nel letto del vento,
ma anche di ruotare...
In genere si dorme assai poco in tale situazione, anche se ci si trova nel mezzo del marina.
Concludo con il
classico dei classici: la drizza che sbatte.
In effetti le notti
ventose passate in un marina sono spesso un concertino di percussioni a
frequenze e tonalità molto variabili in dipendenza delle zone più o meno
soggette alle raffiche, alla altezza degli alberi e quindi alla lunghezza delle
drizze, al materiale con cui sono fatti gli alberi.
…Che poi finché è
una delle nostre drizze è sufficiente alzarsi e tenderla forte o allentarla e
poi tesarla nuovamente con un elastico lontano dall’ albero; quando invece è
quella della barca a fianco o quella di qualche barca ormeggiata più in là può trasformarsi
nel preludio di una notte in bianco.
E’ proprio il caso
di dire “prevenire è meglio che curare”….
(*) Toh, un
asterisco…mi ero dimenticato che esistevano!
Per dare una idea
del “tiro” dello strattone sulla bitta facciamo un calcoletto verosimile.
Siamo legati in
banchina con 4 ormeggi con una bella burrasca di vento; sotto raffica la barca
di 12 m che disloca 10 tonn indietreggia raggiungendo la velocità di 20 cm/s
prima che l’ ormeggio di sopravvento si tenda.
In quel momento esso
deve fermare la barca in 4/10 di secondo: con quale forza viene sollecitato sia
lui che i bulloni della bitta ?
F = mxa = 10.000 x
(0,20-0) / 0.4 = 5000 N cioè circa 500 Kg
Se fosse più
elastico e fermasse la barca in un tempo doppio la forza dimezzerebbe.
Attenzione, è un po' la stessa situazione di un ponte: le
strutture di un ponte sono "abilitate" a sostenere i carichi del
traffico soprastante, ma questi sono dinamici, cioè continuano
negli anni....e dai e dai, anche il ponte si stufa. (Qui si aprirebbe
una osservazione sul viadotto Morandi di Genova, non tanto sulla sua
manutenzione quanto sulla sua progettazione). Ma non so se sia il
caso di parlarne.