ARTICOLI E CHIACCHIERE COSE TRA NOI
LUGLIO 2021

ISPEZIONABILITA'

Mi è capitato di aiutare un mio carissimo amico frocierista veneziano a trasportare al Lido di Venezia svariati pezzi di legno sagomati per comporre un soppalco.
Ciò è avvenuto a fine marzo, durante le restrizioni anti pandemiche, con una Venezia semi deserta; per semi deserta intendo dire che erano presenti solo i lavoratori e i residenti, pertanto una città quasi senza persone…
Di per sé la cosa non ha nulla di straordinario, se non il fatto che tutti detti pezzi più o meno pesanti e più o meno ingombranti sono stati portati a spalla al terzo piano di un vecchio condominio, dai soffitti particolarmente alti e dall’ ascensore particolarmente angusto, lento ed obsoleto...Insomma è stata una bella faticata che però mi (ci) ha permesso di gustare qualcosa di portentoso.

Ecco, ci sono emozioni di un attimo che durano una vita.

E’ difficile immaginare dopo una faticosa giornata di lavoro quanto possa essere affascinate passare davanti a San Marco e al Palazzo Ducale da bordo di uno dei traghetti dell’ ACTV.
Affascinante forse è la parola più giusta, come quando ti passa davanti una visione che ti incanta e che, se ne hai già goduto in un’ altra occasione, rivedi ancora con lo stesso incanto.
E’ ciò che succede quando sei innamorato.
Passare davanti a San Marco e al Palazzo Ducale da bordo di uno dei traghetti dell’ ACTV con una Venezia quasi deserta è una emozione che abbiamo apprezzato noi, ma con noi l’ ha apprezzata anche quella sparuta decina di lavoratori interrazziali di ritorno da chissà quali cantieri edili, idraulici, elettrici ecc…
Una decina di Rumeni, Pakistani, Cingalesi, ognuno con la pelle dalle sfumature diverse e dai tratti somatici particolari, ognuno con la sua storia alle spalle e davanti, ognuno con i suoi problemi e la sua fatica dopo una lunga giornata di lavoro…
..Ma tutti comunque incantati di fronte a tanta bellezza, a tanta maestria, a tanti merletti di pietra d’ Istria che si riflettono sulla laguna.

TANTA BELLEZZA

Con Nicola, il mio amico, ci siamo guardati negli occhi e ci siamo convinti che dopo Napoleone è come se la città veneta fosse caduta in una imboscata.

Dopo Napoleone siamo stati capaci di farle molto male, stringendola di assedio tra una zona industriale, un petrolchimico, un porto che non aveva nulla a che vedere col bacino di San Marco e con l’ Arsenale, un litorale gonfio di alberghi e stabilimenti balneari, un aeroporto, una valanga di turismo ormai incontrollabile e, dulcis in fundo, un terreno di sottofondo che inesorabilmente si siede su se stesso.
Tutto per causa nostra.
Cui si è aggiunto il mare che lievita ogni anno di più, come una brioche.
Questo per causa di tutti.

Eppure lei si lascia ancora ammirare, dotata di una gloria languida che compare e scompare come il riflesso sull’ onda; fragile e altera come a dirci: “puoi guardarmi, ma non puoi toccarmi”.
Infatti ogni volta che la tocchiamo pare si disfi sempre più.
Ricca Venezia…Povera Venezia!

Ed ogni volta, accanto al fascino che mi coglie intimidito, sale l’ angoscia del mio pragmatico ed arido ciclo di studi ingegneristici che mi fanno mormorare: “ma come fa a stare in piedi tutto questo ?”
Più o meno io so quel che c’è sotto…
Io sono a conoscenza delle fondazioni su migliaia di pali, della melma molle più organica che inorganica, dello strato di caranto (*), dell’ ossigeno che sott’ acqua non arriva a marcire i pali, della deformabilità quasi plastca delle file di mattoni, dei solai a quote diverse che si sostengono l’ un l’ altro comprimendosi oltre che flettendosi…
Tutte cose dette e stradette…

Ma sta in piedi!

Tonnellate e tonnellate di mattoni cotti e di colonne, davanzali, capitelli, logge in pietra d’ Istria, poggiate su un vuoto limaccioso in perenne erosione; cupole, facciate di chiese enormi, campanili che sfidano l’ inclinazione della torre di Pisa…

Ma sta in piedi!

Venezia ha un fascino anche geotecnico e strutturistico.

Oggi vorrei parlare di un argomento strutturistico.
Per farlo vorrei partire da un riferimento che ho lasciato in sospeso lo scorso mese di maggio 2021: trattavasi di una osservazione sul viadotto Morandi di Genova, non tanto sulla sua manutenzione quanto sulla sua progettazione.  
Come tutti più o meno sappiamo, gli accertamenti delle inchieste giudiziarie hanno portato alla luce gravissime negligenze di manutenzione, e su questo siamo tutti d’ accordo.
Però, però...Secondo me esisteva anche una grave negligenza progettuale.
Tutti gli addetti ai lavori sanno (per capirci gli ingegneri egli architetti) che una struttura destinata a passare la sua vita in tensione, come per esempio uno strallo di un ponte o di un’ armo velico, deve essere ispezionabile.
Il viadotto Morandi è nato con la stessa deficienza che mettono in opera gli armatori che rivestono con delle guaine gli arridatoi delle sartie: queste nascondono le condizioni dell’ acciaio sottostante e non ne permettono la facile ispezione, la pulizia, la ispezione.
Gli stralli del viadotto Morandi, in acciaio, erano rivestiti da guaine in calcestruzzo, come fossero dei pilastri…Solo che i pilastri lavorano a pressione (o tuttalpiù a presso-flessione) e quindi il calcestruzzo assai difficilmente si fessura, mentre gli stralli come detto prima lavorano solo a trazione, ed il calcestruzzo si fessura, oh se si fessura!
Se poi il viadotto viene costruito presso il mare, ad ogni burrasca di libeccio gli arriva un bel carico di sale che pian piano di insinua nelle fessure e arriva agli stralli interni.
I quali fanno quello che fa qualsiasi pezzo di acciaio ripetutamente soggetto all’ azione del cloruro di sodio: si arrugginiscono e si corrodono e poi si arrugginiscono su quel che resta e si corrodono, e poi ancora si arrugginiscono su quel che resta di quel che resta e via così, finché ce la fanno…
E poi schiantano.
Ecco, forse bastava che il progettista avesse lasciato all’ aria gli stralli: visibili, manutentabili, sostituibili.

Così come è per qualsiasi parte metallica della nostra amata barca.
Deve essere visibile, e facilmente raggiungibile.
Dai silent-block del motore, al coperchio della girante, al verricello dell’ ancora, agli arridatoi, alle valvole delle prese a mare…
Tutto visibile, tutto ispezionabile, tutto sostituibile.
Allora sì che si è a bordo di una barca!

Sennò si è a bordo di una “ricerca di guai”: magari non è così per colui che l’ ha comperata nuova e dopo cinque anni già la rivende, ma è così per colui che ne fa passare altri cinque o che la compera dopo che sia passato un decennio.
Aggiungendo poi il fatto che gli acciai (più o meno inox) non vengono più prodotti a Taranto fondendo miscele metalliche provenienti da Vattelapesca, ma vengono ormai colati diffusamente in Cina riciclando non si sa cosa, ecco che la ruggine cammina e cammina molto più presto di trent’ anni fa.
Può essere infatti che la stampata che compone l’ arridatoio della sartia abbia al suo interno sia parti dello sportello di una Cadillac del 1950, come anche un po’ del collettore di scarico del motore Volvo di un camion del 1990 e qualche traccia di una lattina in alluminio di Fanta che il grande magnete della raccolta differenziata non è riuscito a separare.
Tutto può essere.
La siderurgia industriale è come la globalizzazione della razze: non è detto (e per fortuna) che una persona di colore si accoppi solo con un’ altra di colore.
Insomma credo proprio di non sbagliare affermando che esiste la “imbastardizzazione dell’ acciaio”, parola orribile ma efficace.
Pertanto, a maggior ragione, ispezioniamo spesso ciò che è ispezionabile e prendiamo le distanze dalle barche dove l’ ispezionabile non lo è più di tanto.
Perché una barca non è come una bella donna che è sufficiente che sia bella e basta.
Una barca deve riportarti a casa, come una moglie.
Ed una moglie non è sufficiente che sia bella e basta.

(*) Dicesi “caranto” una specie di argilla sovra-consolidata, pertanto molto compatta e ad elevatissimo grado di coesione, presente qualche metro sotto allo strato di argilla molle e limi che caratterizza il fondo della laguna veneta. Mi pare superfluo dire, ma lo dico lo stesso, che la capacità portante dell’ argilla molle e dei limi è scarsissima, essendo terreni ad elevata comprimibilità con coesione ridotta e attrito quasi assente (l’ attrito è invece tipico dei terreni incoerenti come sabbie e ghiaie); pertanto se infilzo un palo in questo primo strato la sua capacità portante sarà quasi inesistente.
Ma se invece il palo è così lungo da raggiungere il caranto, o quantomeno sufficiente a compattare gli strati superiori di argille e limi, esso (palo) può lavorare anche di punta (cioè diventare un vero e proprio piccolo pilastro) e quindi aumentare considerevolmente la propria capacità portante.
Può capitare, ed è capitato, che se si esagera con la lunghezza del palo e si continua a batterlo esso sfori lo strato di caranto (il suo spessore è variabile ma misura solo qualche metro) e si perda negli strati sottostanti più molli….”Palo perso pal caìgo”, tradotto: “palo perso nella nebbia”.
Quindi Venezia sta su grazie a una gigantesca palafitta che si appoggia più o meno sulla fodera di un cuscino ristretto tra una nuvola di melma e un’ altra.
Bello.    Ma durerà?    E fino a quando?

 

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