Mi è capitato di aiutare un mio carissimo amico frocierista
veneziano a trasportare al Lido di Venezia svariati pezzi di legno sagomati per
comporre un soppalco.
Ciò è avvenuto a fine marzo, durante le restrizioni anti
pandemiche, con una Venezia semi deserta; per semi deserta intendo dire che
erano presenti solo i lavoratori e i residenti, pertanto una città quasi senza persone…
Di per sé la cosa non ha nulla di straordinario, se non il
fatto che tutti detti pezzi più o meno pesanti e più o meno ingombranti sono
stati portati a spalla al terzo piano di un vecchio condominio, dai soffitti
particolarmente alti e dall’ ascensore particolarmente angusto, lento ed
obsoleto...Insomma è stata una bella faticata che però mi (ci) ha
permesso di gustare qualcosa di portentoso.
Ecco, ci sono emozioni di un attimo che durano una vita.
E’ difficile immaginare dopo una faticosa giornata di
lavoro quanto possa essere affascinate passare davanti a San Marco e al Palazzo
Ducale da bordo di uno dei traghetti dell’ ACTV.
Affascinante forse è la parola più giusta, come quando ti
passa davanti una visione che ti incanta e che, se ne hai già goduto in un’
altra occasione, rivedi ancora con lo stesso incanto.
E’ ciò che succede quando sei innamorato.
Passare davanti a San Marco e al Palazzo Ducale da bordo di
uno dei traghetti dell’ ACTV con una Venezia quasi deserta è una emozione che abbiamo
apprezzato noi, ma con noi l’ ha apprezzata anche quella sparuta decina di
lavoratori interrazziali di ritorno da chissà quali cantieri edili, idraulici,
elettrici ecc…
Una decina di Rumeni, Pakistani, Cingalesi, ognuno con la
pelle dalle sfumature diverse e dai tratti somatici particolari, ognuno con la
sua storia alle spalle e davanti, ognuno con i suoi problemi e la sua fatica
dopo una lunga giornata di lavoro…
..Ma tutti comunque incantati di fronte a tanta bellezza, a
tanta maestria, a tanti merletti di pietra d’ Istria che si riflettono sulla
laguna.
Con Nicola, il mio amico, ci siamo guardati negli occhi e ci siamo convinti che dopo Napoleone è come se la città veneta fosse caduta in una imboscata.
Dopo Napoleone siamo stati capaci di farle molto male,
stringendola di assedio tra una zona industriale, un petrolchimico, un porto
che non aveva nulla a che vedere col bacino di San Marco e con l’ Arsenale, un
litorale gonfio di alberghi e stabilimenti balneari, un aeroporto, una valanga
di turismo ormai incontrollabile e, dulcis in fundo, un terreno di sottofondo
che inesorabilmente si siede su se stesso.
Tutto per causa nostra.
Cui si è aggiunto il mare che lievita ogni anno di più,
come una brioche.
Questo per causa di tutti.
Eppure lei si lascia ancora ammirare, dotata di una gloria
languida che compare e scompare come il riflesso sull’ onda; fragile e altera
come a dirci: “puoi guardarmi, ma non puoi toccarmi”.
Infatti ogni volta che la tocchiamo pare si disfi sempre
più.
Ricca Venezia…Povera Venezia!
Ed ogni volta, accanto al fascino che mi coglie intimidito,
sale l’ angoscia del mio pragmatico ed arido ciclo di studi ingegneristici che mi fanno
mormorare: “ma come fa a stare in piedi tutto questo ?”
Più o meno io so quel che c’è sotto…
Io sono a conoscenza delle fondazioni su migliaia di pali,
della melma molle più organica che inorganica, dello strato di caranto (*),
dell’ ossigeno che sott’ acqua non arriva a marcire i pali, della deformabilità
quasi plastca delle file di mattoni, dei solai a quote diverse che si
sostengono l’ un l’ altro comprimendosi oltre che flettendosi…
Tutte cose dette
e stradette…
Ma sta in piedi!
Tonnellate e tonnellate di mattoni cotti e di colonne, davanzali, capitelli, logge in pietra d’ Istria, poggiate su un vuoto limaccioso in perenne erosione; cupole, facciate di chiese enormi, campanili che sfidano l’ inclinazione della torre di Pisa…
Ma sta in piedi!
Venezia ha un fascino anche geotecnico e strutturistico.
Oggi vorrei parlare di un argomento strutturistico.
Per farlo vorrei partire da un riferimento che ho lasciato
in sospeso lo scorso mese di maggio 2021: trattavasi di una osservazione sul
viadotto Morandi di Genova, non tanto sulla sua manutenzione quanto sulla sua
progettazione.
Come tutti più o meno sappiamo, gli accertamenti delle
inchieste giudiziarie hanno portato alla luce gravissime negligenze di
manutenzione, e su questo siamo tutti d’ accordo.
Però, però...Secondo me esisteva anche una grave negligenza
progettuale.
Tutti gli addetti ai lavori sanno (per capirci gli
ingegneri egli architetti) che una struttura destinata a passare la sua vita in
tensione, come per esempio uno strallo di un ponte o di un’ armo velico, deve
essere ispezionabile.
Il viadotto Morandi è nato con la stessa deficienza che
mettono in opera gli armatori che rivestono con delle guaine gli arridatoi
delle sartie: queste nascondono le condizioni dell’ acciaio sottostante e non
ne permettono la facile ispezione, la pulizia, la ispezione.
Gli stralli del viadotto Morandi, in acciaio, erano
rivestiti da guaine in calcestruzzo, come fossero dei pilastri…Solo che i
pilastri lavorano a pressione (o tuttalpiù a presso-flessione) e quindi il
calcestruzzo assai difficilmente si fessura, mentre gli stralli come detto
prima lavorano solo a trazione, ed il calcestruzzo si fessura, oh se si
fessura!
Se poi il viadotto viene costruito presso il mare, ad ogni
burrasca di libeccio gli arriva un bel carico di sale che pian piano di insinua
nelle fessure e arriva agli stralli interni.
I quali fanno quello che fa qualsiasi pezzo di acciaio
ripetutamente soggetto all’ azione del cloruro di sodio: si arrugginiscono e si
corrodono e poi si arrugginiscono su quel che resta e si corrodono, e poi
ancora si arrugginiscono su quel che resta di quel che resta e via così, finché
ce la fanno…
E poi schiantano.
Ecco, forse bastava che il progettista avesse lasciato all’
aria gli stralli: visibili, manutentabili, sostituibili.
Così come è per qualsiasi parte metallica della nostra
amata barca.
Deve essere visibile, e facilmente raggiungibile.
Dai silent-block del motore, al coperchio della girante, al
verricello dell’ ancora, agli arridatoi, alle valvole delle prese a mare…
Tutto visibile, tutto ispezionabile, tutto sostituibile.
Allora sì che si è a bordo di una barca!
Sennò si è a bordo di una “ricerca di guai”: magari non è
così per colui che l’ ha comperata nuova e dopo cinque anni già la rivende, ma è
così per colui che ne fa passare altri cinque o che la compera dopo che sia
passato un decennio.
Aggiungendo poi il fatto che gli acciai (più o meno inox)
non vengono più prodotti a Taranto fondendo miscele metalliche provenienti da
Vattelapesca, ma vengono ormai colati diffusamente in Cina riciclando non si sa
cosa, ecco che la ruggine cammina e cammina molto più presto di trent’ anni fa.
Può essere infatti che la stampata che compone l’
arridatoio della sartia abbia al suo interno sia parti dello sportello di una
Cadillac del 1950, come anche un po’ del collettore di scarico del motore Volvo
di un camion del 1990 e qualche traccia di una lattina in alluminio di Fanta
che il grande magnete della raccolta differenziata non è riuscito a separare.
Tutto può essere.
La siderurgia industriale è come la globalizzazione della
razze: non è detto (e per fortuna) che una persona di colore si accoppi solo
con un’ altra di colore.
Insomma credo proprio di non sbagliare affermando che
esiste la “imbastardizzazione dell’ acciaio”, parola orribile ma efficace.
Pertanto, a maggior ragione, ispezioniamo spesso ciò che è
ispezionabile e prendiamo le distanze dalle barche dove l’ ispezionabile non lo
è più di tanto.
Perché una barca non è come una bella donna che è
sufficiente che sia bella e basta.
Una barca deve riportarti a casa, come una moglie.
Ed una moglie non è sufficiente che sia bella e basta.
(*) Dicesi “caranto” una specie di argilla
sovra-consolidata, pertanto molto compatta e ad elevatissimo grado di coesione,
presente qualche metro sotto allo strato di argilla molle e limi che
caratterizza il fondo della laguna veneta. Mi pare superfluo dire, ma lo dico
lo stesso, che la capacità portante dell’ argilla molle e dei limi è
scarsissima, essendo terreni ad elevata comprimibilità con coesione ridotta e
attrito quasi assente (l’ attrito è invece tipico dei terreni incoerenti come
sabbie e ghiaie); pertanto se infilzo un palo in questo primo strato la sua
capacità portante sarà quasi inesistente.
Ma se invece il palo è così lungo da raggiungere il caranto,
o quantomeno sufficiente a compattare gli strati superiori di argille e limi,
esso (palo) può lavorare anche di punta (cioè diventare un vero e proprio
piccolo pilastro) e quindi aumentare considerevolmente la propria capacità
portante.
Può capitare, ed è capitato, che se si esagera con la
lunghezza del palo e si continua a batterlo esso sfori lo strato di caranto (il
suo spessore è variabile ma misura solo qualche metro) e si perda negli strati
sottostanti più molli….”Palo perso pal caìgo”, tradotto: “palo perso nella
nebbia”.
Quindi Venezia sta su grazie a una gigantesca palafitta che
si appoggia più o meno sulla fodera di un cuscino ristretto tra una nuvola di
melma e un’ altra.
Bello. Ma
durerà? E fino a quando?