Molto spesso, a volte troppo, mi chiedo cosa sia che spinge una persona a comperare una barca a vela, nuova o usata che sia.
Considerando la mia “storia con la vela”
che è datata ormai 55 anni, ho notato che questa “molla” che spinge non è mai
stata la stessa.
A 10 anni, cioè quando per la prima volta
salii su una deriva e mi diedero una barra in mano, provai un senso di estrema
attenzione per ogni tensione e movimento: l’ ambiente intorno a me non
esisteva; avvertivo solo i movimenti dello scafo, le tensioni delle manovre
correnti, le vibrazioni della brezza sulle vele, la rigidità dei miei
muscoletti di ragazzino impegnati ad adattarsi a tutte quelle situazioni di
equilibri continuamente variabili.
Però fu bello, molto bello; soprattutto per
quella sensazione di libertà che mi offriva il sentire il vento sulla faccia.
Poi già l’ anno seguente, dopo aver
iniziato a divorare libri sull’ argomento, quella “molla” era già cambiata: iniziai
a “godere del mare”, nel senso che accanto a movimenti, tensioni ed equilibri, provai
piacere a vedere e sentire intorno a me l’ ambiente: poderoso, immenso,
fortissimo, degno del massimo rispetto, ma altrettanto pieno di fascino.
Ricordo che le letture mi stavano
plagiando: ero indirizzato a scoprire come fare a far correre il più veloce
possibile la barca; il confronto con gli altri e la partecipazione alle prime
regate stavano diventando un chiodo fisso nei miei pensieri.
Così cominciai a fare esperimenti…andai avanti
a spalmare di crema “Nivea” l’ opera viva della barca, a sagomare le crocette
in legno ricavandone un profilo aerodinamico, a studiare come incuneare la
miccia per curvare o meno l’ albero, a valutare i bordi di entrata e di uscita
delle vele, ad esercitare la sensibilità al timone in funzione delle variazioni
della collocazione dei pesi dell’ equipaggio…Ero arrivato al punto che sulla
mia barchetta tutto era regolabile in navigazione, pesino la tensione delle
sartie.
In seguito però, un po’ alla volta, queste
cose persero di importanza.
Era come se la “molla” fosse diventata un’
altra: ora era la voglia di andare a vedere cosa c’ era “oltre l’ orizzonte” al
di là del mare Adriatico, che per me era stato finora un mare verde oltre una
sottile e infinita costa sabbiosa.
Chissà cosa c’era al di là del mare
Adriatico, da dove mi giungevano i racconti di qualche crocierista più anziano
che aveva una barca di 7 metri piena di taniche d’ acqua e di gasolio e dotata
solo di bussola e barometro.
Queste persone che consideravo come piene
di esperienza mi parlavano di baie e capi dai nomi pieni di fascino, del mare di
color blu e non verde, della bora, degli scogli e dei boschi che arrivavano a
lambire le sponde, dei profumi e dei sapori di una terra vicinissima, ma nello
stesso tempo diversissima.
Grazie alla comprensione e generosità di
Pino Pugliese (colui che mi aveva affidato il timone della sua deriva dandomi
le prime “dritte” qualche anno prima) e che ora era armatore di un cabinato di 11
metri, ebbi finalmente modo di attraversare il mare raggiungendo l’ Istria; non
solo ma anche di arrivare addirittura alle isole della Grecia Ionica…
Era questa una dimensione di mare
completamente diversa: la stessa acqua ma vestita di avventura, di prudenza, di
insegnamenti, di esperienze, di meraviglie, di umiltà, di gioia.
Il mare non era più una cosa grande e
forte, ma poteva diventare un qualche cosa di cui godere e la barca poteva
diventare un rifugio da “gestire”.
Un ambiente dove imparare un sacco di cose
belle, di mestieri nuovi, di emozioni fortissime.
Una vita dove acquista una importanza
enorme avere un raccordo di tubo o non averlo, avere una mezza officina a
disposizione nel gavone o trovarsi senza l’ attrezzo giusto; diventa quasi
essenziale redigere un elenco giornaliero delle cose da fare o non farlo, avere
una cima in più o non averla, un barometro e un igrometro che funzionino o che
siano rotti; avere un maglione asciutto, un paio di guanti, una Aspirina…
Una vita dove si impara quasi subito ad essere
consapevoli che “ce la si può fare” sia a condurre la barca che a scegliere l’
ormeggio giusto, sia ad affrontare il temporale che a gestire la sicurezza
propria e degli altri.
Così “la molla” diventò la seguente:
perché non provarci con una barca propria, magari portando con sé moglie e
figli?
Ed ecco che intrapresi “il passo”
comprando un cabinato in legno di 7 metri e mezzo, col quale davanti a noi (intesi
come giovane famiglia) si aprì l’ Istria.
Dentro non si stava in piedi; per entrare
e uscire dal wc occorrevano un bel po’ di contorsionismi; il diesel
bicilindrico spingeva quel guscio di noce a non più di 4 nodi e mezzo; con le
vele riusciva a raggiungere i 5 nodi; ogni inverno la pioggia si infiltrava tra
le giunzioni del compensato marino e ogni primavera mi spaccavo le mani a
grattare, stuccare e riverniciare; allora non esisteva la categoria di “natante”
e quindi, pur essendo inferiore ai 10 m, per fare il rinnovo del certificato di
sicurezza dovevo portare la barca in capitaneria a Venezia dove, ormeggiando
sul canale della Giudecca, si spaccava il bottazzo per il moto ondoso che c’
era.
Poi quella stessa molla mi fece fare un
altro passo: un cabinato in vetroresina di 10 metri, col quale davanti a noi si
aprì il Kvarner e la Dalmazia.
Fu la barca con la quale i figli passarono
forse gli anni più belli e spensierati della loro giovinezza; imparammo a
conoscere anche noi, anno dopo anno, le baie e le spiagge dalmate, i paesi, i
sentieri, i profumi; imparammo a sbagliare e a correggerci; a conoscere cosa fosse
indispensabile, cosa utile e cosa superfluo; apprezzammo anche l’ avvento del
GPS, ma senza mai rinunciare a navigare consultando sempre le carte nautiche; io
imparai che una barca in vetroresina è incommensurabilmente superiore a una in
legno, la quale nasce per farsi ammirare stando esposta in un museo, ma non per
starsene anno dopo anno sotto il sole e la neve.
Poi i figli e gli amici mi fecero capire
che piaceva talmente tanto a tutti quel tipo di vacanza, che feci l’ ultimo
passo e comprai una barca di 12 metri.
Con questa barca i confini non si
dilatarono più di tanto, ma con essa arrivò il calore delle vere amicizie e l’
allontanamento dei figli ormai grandi.
Le amicizie si condensarono in un gruppetto che si autodefinì “frocieristi” con il quale ritrovai lo spirito che avevo perduto dopo gli anni del liceo: un meraviglioso ringiovanimento fatto di scherzi innocenti e puerili con lo sfondo di baie (zaliv), trattorie (konobe) e burrasche (neverina).
Poi, quasi insieme al cambiamento
ambientale del meteo che stiamo tutti vivendo, arrivò anche la vecchiaia mia e
di mia moglie.
La vecchiaia è il ricordo di tanti e tanti
episodi che la visione delle fotografie e la rilettura dei giornali di bordo
fanno riviere.
La vecchiaia è la voglia di dormire in
barca solo se non fa freddo.
La vecchiaia è la voglia di navigare solo
se c’è il sole e il mare è calmo.
La vecchiaia è il mal di schiena tutti i
giorni.
La vecchiaia è la rigidità delle gambe
quando ci si alza dalla cuccetta.
La vecchiaia è ascoltare i racconti
avventurosi degli altri sapendo di averli già vissuti.
Ora mi chiedo: esiste ancora “la molla”?
Esiste ancora ciò che spinge ad avere una
barca a vela e a navigarci?
Il mondo intorno è cambiato nel giro di
pochi anni….
Se pensiamo ad organizzare le ferie in
barca dobbiamo fare i conti non più solo con la carta di identità o col
passaporto, ma anche con i tamponi, gli pseudo-vaccini, i timbretti su un pezzo
di carta o nella App, che ci permetterebbero di espatriare senza però avere
alcuna certezza di non ammalarci o di infettare gli altri.
Se pensiamo a gettare l’ ancora su una
baia dobbiamo fare i conti con le storie e le immagini dei cadaveri dei bambini
sulla sabbia, delle donne incinte che passano le giornate sui gommoni in mezzo
al Mediterraneo e ci lasciano anche le penne, agli adolescenti che nuotano
sperando in un soccorso e in un futuro migliore.
Di quanto cinismo ed egoismo abbiamo
bisogno per non vedere quel che sta accadendo in questo mondo?
Riusciamo ancora a considerare solo il
nostro piacere, che abbiamo conquistato dopo anni ed anni di accumulo di
ricchezze fasulle in quanto costruite solo sul consumismo più sfrenato
possibile e tenute in piedi da una economia basata sull’ indebitamento degli
Stati?
Parole dure?
Forse un po’ sì, ma tremendamente attuali.
Socialmente ci stiamo inoltrando in un
nuovo medioevo, in cui pochi hanno troppo e molti hanno sempre più niente.
Solo che mille anni fa l’ ambiente intorno
all’ umanità era sano; ora invece anche l’ ambiente si è incazzato, e questo
(una degnissima forma di giustizia sociale) fa del male a tutti.
Le conseguenze dell ‘inquinamento le
paghiamo tutti, ricchi e poveri, come quelle dei una pandemia.
Che “molla” mi resta ora?
Forse quella di scrivere e raccontare ciò
che ho imparato, ciò che mi ha fatto gioire, ciò che mi ha fatto soffrire.
Quella di sperare di trovare in chi legge
una persona che abbia condiviso lo stesso percorso di “molle”.
La vita in barca aiuta molto in questo.